L’altro lato della depressione
L’OMS ha recentemente lanciato un allarme: la depressione in 10 anni è aumentata quasi del 20% e nel mondo ne soffrono 332 milioni di persone. In diverse forme, in Italia la depressione interessa circa 15 milioni di individui. Sono cifre da epidemia, peraltro in costante aumento, ma questo dato ha consentito anche un nuovo punto di vista sulla questione, che sta portando diversi studiosi a “rivalutare” alcuni aspetti di questa patologia. Alcuni psichiatri e psicologi sono arrivati a ipotizzare che anche questo male abbia una sua -per quanto dolorosa- funzione, cioè spingere gli individui a concentrarsi sui propri problemi –una relazione che non va, un lavoro che non soddisfa- per cercare di trovarvi una soluzione. La depressione – come sostenuto dal New York Times Magazine– sarebbe in questo senso come la febbre, una reazione che aiuta il sistema immunitario ad adattarsi a una situazione problematica, e dunque a reagire.
La depressione può essere una risorsa?
La psichiatria evoluzionistica sostiene che gli episodi depressivi rappresenterebbero in realtà un’occasione utile per consentire alla mente di mettere a fuoco le emozioni negative e gestire meglio il dolore esistenziale. Comportamenti come evitare le situazioni sociali, non andare al lavoro, dormire molto, sarebbero funzionali a
prendersi del tempo per sé e analizzare e comprendere il proprio stato d’animo e gli eventi scatenanti, in un mondo in cui tutto fare questo è molto complicato.
Esistono diverse teorie secondo le quali la depressione avrebbe un lato adattivo, e una delle attualmente più conosciute riguarda l’ipotesi della ruminazione analitica. Questa teoria, proposta dai ricercatori americani Andrews e Thomson (2009), sostiene che i sintomi fisici e mentali della depressione (l’anedonia, ovvero la
mancanza di piacere e interesse nella maggior parte delle attività e la ruminazione, cioè quel continuo rimuginare sui problemi che caratterizza l’attività mentale del depresso) sarebbero correlati con un aumento delle abilità analitiche e sarebbero tutti meccanismi atti a promuovere una ricerca di soluzioni alternative. In particolare la ruminazione ha una funzione positiva: impedire al malato di distrarsi e tenere la sua attenzione concentrata sul problema specifico che deve risolvere, o sulla situazione che deve imparare ad accettare. Dunque, secondo gli studiosi, la depressione sarebbe un tratto adattivo, anche nel senso darwiniano del termine, cioè una caratteristica vantaggiosa biologicamente.
Il Prof. Troisi, psichiatra evoluzionista all’università di Roma Tor Vergata, afferma: “l’approccio evoluzionistico in psichiatria parte da un presupposto: quello secondo cui tutte le emozioni negative nascono come adattamento”. L’ansia e la depressione sarebbero dunque dei segnali di allarme simili al dolore fisico, che permettono di evitare situazioni, eventi o relazioni che provocano dolore mentale.
In linea con questo pensiero, altri studiosi parlano di “realismo depressivo” (Alloy e Abramson, 1979), spiegando con questo termine il fatto che le persone depresse hanno una visione delle cose più realistica. Sono stati condotti dei test, a questo proposito, nei quali le persone affette da depressione hanno ottenuto, rispetto al
campione, dei punteggi più alti su una scala che misurava la capacità di analisi realistiche e la consapevolezza di fronte ai problemi.
Il fatto che la depressione abbia una utilità non deve farci dimenticare che essa è una malattia, e che come tale va affrontata e curata.
Un accenno alla tristezza
Molto diversa dalla depressione è la tristezza, che ci consente di allontanarci temporaneamente dal mondo esterno per occuparci del mondo che sta dentro di noi. Essa ci aiuta nell’elaborazione dei ricordi e ci consente di sperimentare compassione ed empatia. Alcuni teorici ipotizzano che questa emozione si sia evoluta come grido di aiuto, permettendo così alle persone di comunicare la propria sofferenza e, agli altri, di ricevere il messaggio senza bisogno di parole.
In un articolo del 2009 pubblicato sulla rivista Evolutionary Psychology, per esempio, i ricercatori dell’Università di Tel Aviv hanno osservato che le lacrime segnalano vulnerabilità e promuovono l’avvicinamento (Hasson, 2009). Inoltre nel 2013 Balsters e collaboratori hanno condotto uno studio sperimentale per osservare l’influenza delle lacrime. I ricercatori hanno mostrato ai partecipanti una serie di
volti, alcuni pieni di lacrime e altri neutri, che comparivano su uno schermo solo per pochi millisecondi, troppo poco tempo per permettere al cervello di registrare in maniera consapevole le lacrime. Lo studio ha rilevato che le lacrime hanno spinto i partecipanti a dire in seguito che quella stessa persona era più bisognosa di
supporto sociale anche se non si erano accorti che quei visi erano bagnati dal pianto (Balsters et al., 2013).
Ancora, Forgas e i suoi colleghi (2010) hanno trovato che le persone tristi hanno buone capacità critiche e maggior accuratezza per i dettagli, addirittura per quelli molto piccoli e sottili. Oltre a ciò i ricercatori hanno documentato che la tristezza rende le persone più altruiste.
Tutte le emozioni portano un messaggio e la tristezza è un “segnale di allarme” che ci permette di fermarci in tempo per cambiare strategia, prima di sprofondare in uno stato emotivo peggiore e pericoloso, fino a cadere nelle sindromi depressive
Leggi TuttoAttacchi di panico: un’opportunità per conoscere sé stessi
Gli attacchi di panico sono episodi di improvvisa ed intensa paura, tipicamente accompagnati da sintomi somatici quali tachicardia, sudorazione, tremore, sensazione di soffocamento, nausea, vertigini, formicolii, parestesie, sensazione di “testa leggera”, vampate di caldo o freddo, sensazione di sbandamento e paura di
morire e/o di impazzire. Chi sperimenta un attacco di panico lo descrive come un’esperienza terrificante, che mette in atto un circolo vizioso in cui la paura stessa di avere un altro attacco determina un ulteriore incremento di ansia.
L’attacco di panico ti paralizza per farti rinascere
Una lettura in chiave psicosomatica consente di vedere l’attacco di panico come un'occasione per comprendere meglio sé stessi e per modificare atteggiamenti o comportamenti disfunzionali. Nell’attacco di panico è presenta una scarica di vitalità emotiva (inutilizzata fino a quel momento) che la persona percepisce come pericolosa, ma che in realtà proviene da una parte di sé “sconosciuta”. Il terapeuta può innanzi tutto aiutare il paziente a porsi quelle domande inespresse, inascoltate affiancandolo mentre cerca nuove risposte al suo essere nel mondo in relazione a sé stesso e agli altri.
Secondo questa prospettiva l’attacco di panico rappresenta dunque tutta l’energia che non si vive.
Il panico, con la sua forza dirompente ci dà la sensazione di essere schiacciati e di morire. In realtà porta in primo piano il nostro mondo emotivo interiore e le emozioni che abbiamo dimenticato o cercato di controllare e frenare.
Non è certo facile convincersi di questa valenza salvifica degli attacchi di panico.
Come prima cosa la persona che ne soffre cerca di zittirlo e di non sentirlo mai più, tanto è spaventosa la sensazione che lo accompagna. Se riusciamo invece a “porci in ascolto” di quelle emozioni, allora capiamo che dentro di noi c’è qualcosa di molto profondo che chiede di venire allo scoperto.
Attacchi di panico: cosa fare
– Se il panico è arrivato e condiziona la nostra esistenza, una ragione c’è.
Proviamo a chiederci se stiamo vivendo seguendo ciò che vogliamo e ciò in cui crediamo. Lottare contro di esso non serve a nulla
– Iniziare a notare quando compare l’attacco di panico. È probabile che, se prestiamo attenzione, ci accorgeremo che esso si presenta dopo una serie di negazione delle nostre emozioni, spesso della rabbia o della tristezza
– Ricordati che l’attacco di panico ha un ciclo: così come è arrivato, se ne andrà
Immagine corporea e benessere: quale relazione?
Schilder (1935) definisce l’immagine corporea “quel quadro del nostro corpo che formiamo nella nostra mente, ovvero il modo in cui il nostro corpo appare a noi stessi.” È interessante sapere che lo studio delle rappresentazioni corporee nasce nel XVI secolo, quando il chirurgo Ambroise Parè osservò e definì il cosiddetto fenomeno dell’arto fantasma, riscontrabile in soggetti che avevano subito l’amputazione di un arto (Guaraldi, 1990).
Ma come nasce l’immagine corporea?
Secondo alcuni studiosi questo costrutto si acquisisce attraverso 6 stadi principali (Lis, Venuti e Basile, 1990)
– Nascita: il neonato percepisce il proprio corpo in maniera vaga, globale, indifferenziata
– 3° mese: il bambino inizia a mostrare interesse per il mondo esterno, ma non distingue sé stesso dall’ambiente circostante (Wallon, Piaget, Mahler, 1954, 1967, 1982) e la sua bocca media tra i suoi bisogni e l’esterno (suzione)
– 6° mese: inizia la differenziazione tra sé e il mondo esterno
– dal 6° al 12° mese: il bambino sperimenta il proprio corpo e il mondo esterno e identifica meglio le forme corporee sugli altri piuttosto che su sé stesso
– dal 12° al 24° mese: il bambino scopre il mondo oggettuale (cioè il mondo attorno a lui). Dai 18 mesi impara a denominarsi guardandosi allo specchio (Mahler, 1982)
– dai 3 anni all’adolescenza: dai 3 anni il, bambino ha totale coscienza di sé. In preadolescenza prima e in adolescenza poi, avvengono tutte quelle trasformazioni nello sviluppo fisico, fisiologico e biochimico che coinvolgono il corpo e le sue rappresentazioni ed è per questo che l’adolescenza è il periodo forse più delicato, dove possono instaurarsi le prime insoddisfazioni e frustrazioni sul corpo e sull’accettazione di esso. Non accettare il proprio corpo e non piacersi sembra essere uno dei fattori predittivi di rischio per lo sviluppo di problematiche legate all’alimentazione.
L’immagine corporea sembra essere l’aspetto più doloroso ed invalidante nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). La risoluzione della sintomatologia alimentare non sempre risolve il problema dell’immagine corporea e la persistenza di questo disagio è fattore predittivo di ricadute (Fairburn, 1993; Freeman, 1985; J.C. Rosen, 1990)
Immagine corporea: alcuni dati in infanzia e adolescenza:
– il 40% delle bambine e il 25% dei bambini delle elementari sono insoddisfatti del proprio corpo e vorrebbero essere più magri (Smolak, 1996)
– tra il 40 e il 70% delle ragazze adolescenti (12-17 anni) sono insoddisfatte di uno o più aspetti del loro corpo. Il disagio è avvertito soprattutto su fianchi, pancia, cosce (Smolak e Levine, 1996)
– Almeno la metà dei pz con DCA sovrastima significativamente la propria taglia (Collins, 1987, Horne et al. 1991)
– Nell’anoressia l’errata percezione della dimensione corporea predice livelli più alti di psicopatologia ad es: perdita del controllo, bassa forza dell’Io, alti livelli di depressione, introversione, ansia, anedonia.
Per le persone che soffrono di problematiche legate all’alimentazione il controllo alimentare rimane l’approccio più semplice per ridurre il problema dell’immagine corporea, e questo complica la gestione e la cura del disturbo. Il periodo
adolescenziale è uno dei più difficili proprio perché in questa fase lo sviluppo puberale solitamente si accompagna ad un aumento del peso, che è un normale processo biologico, ma può destabilizzare la ragazza o il ragazzo che lo sperimenta.
Ci sono diversi fattori con forte influenza sulle rappresentazioni corporee e ai quali dovremmo prestare particolare attenzione, come ad esempio:
– il ruolo importante dei genitori e dei pari (controlli del peso, critiche, commenti..)
– come l’ambiente reagisce ai cambiamenti del corpo dell’adolescente
– la valorizzazione della magrezza nella nostra cultura (influenza rilevante dei media (Field et al, 1999) Instagram, photoshop, ecc.)
Linee guida per adolescenti fuori controllo
Arrivata la preadolescenza, molti genitori non riconoscono più il loro figlio: quello che prima era un bambino docile, obbediente, gentile, all’improvviso diventa arrogante e sfuggente, sempre nervoso, che va su tutte le furie e sembra preoccupato solo di non perdere la popolarità tra i coetanei. Come possiamo gestire tutto ciò? Come capire il comportamento di questo nuovo individuo che ci troviamo per casa?
È necessario innanzi tutto comprendere che l’adolescente che ci troviamo di fronte è molto diverso dall’adolescente che siamo stati noi. Se nel passato potevamo contare su genitori più presenti fisicamente, oggi questo aspetto è certamente cambiato: in quasi tutte le famiglie lavorano sia il papà che la mamma molte ore al giorno, e a distanza provano ad organizzare in modo preciso ogni momento della giornata del figlio cercando di non fargli mai provare né noia né solitudine. I bambini e gli adolescenti di oggi, diversamente da noi, sono sempre connessi: nella nostra società globalizzata i bambini sono costantemente esposti a tv, social network, smartphone, cellulari, smart tv che impediscono loro di provare una “giusta dose” di disconnessione, noia e solitudine. Se un tempo gli unici modelli di identificazione erano i nostri genitori, ora i ragazzi hanno tantissimi stimoli ed esempi diversi.
Qualche consiglio:
- Non cercare di dire “io alla tua età….” Loro non sono noi, e noi non siamo stati adolescenti nella società di oggi, non capirebbero il paragone
- Cerca di costruire una relazione: no connessione, relazione!
- Crea regole. Ascoltali, cerca di comprenderli dando sempre loro i sani limiti. Se sarai in grado di dare regole chiare e credibili, e soprattutto regole che sarai il primo a rispettare, avrai guadagnato un pezzo della loro fiducia.
- Le punizioni non bastano. Castighi, punizioni, urli, reazioni violente possono generare frustrazione nei figli, che tenderanno ad agire in modo altrettanto radicale. La chiave per risolvere i problemi sta nel garantire una maggiore presenza dei genitori, dare attenzioni, affetto, mostrare il proprio interesse
- Abbassiamo i toni: di fronte a comportamenti di sfida, provocatori o aggressivi proviamo a contenerci. Dobbiamo essere autorevoli, non autoritari
- Critica i suoi comportamenti, non la sua persona. Criticarlo ed offenderlo come persona non farà altro che colpire la sua autostima, e lui si sentirà inadeguato. Non dimenticare che il dialogo e il rispetto reciproco sono regole fondamentali per la cura di ogni rapporto.
- Evitiamo di incolparli. Essere adolescenti oggi è davvero difficile ed impegnativo!
- Se il disagio è serio, chiedi aiuto
Pediatri e Psicologi: NO ai cellulari e tablet ai bambini: i danni sono permanenti
La Società Italiana di Pediatria– SIP- è stata molto chiara: l’utilizzo di cellulari si sta
modificando da uso ad abuso, provocando danni per la salute psicofisica che vanno
dalla difficoltà di concentrazione e comprensione all’aggressività.
Trascorrere troppo tempo davanti agli schermi può causare scarso profitto scolastico
(probabilmente dovuto alla difficoltà di comprensione e concentrazione), bassi livelli
di attenzione e minori relazioni sociali con i coetanei, con tutte le conseguenze
negative che ciò comporta. I pediatri hanno verificato che i bambini cominciano
sempre prima a cimentarsi con i dispositivi digitali e il dato più eclatante arriva dagli
Stati Uniti: il 92% dei bambini inizia ad usarli già nel primo anno di vita e all’età di
due anni e mezzo li utilizza giornalmente. In Italia 8 bambini su 10 tra i 3 e i 5 anni
sanno usare il cellulare dei genitori (fonte SIP).
Gli specialisti sono categorici nell’affermare di non utilizzare i cellulari contro i
capricci, né video o giochi sul tablet per distrarre e calmare i bambini molto vivaci,
inoltre sono state proposte alcune indicazioni per proteggere i bambini dai rischi
correlati ad un uso scorretto di cellulari e tablet:
- NO a smartphone e tablet prima dei due anni (se ci pensiamo bene: hanno solo
due anni!!) durante i pasti e prima di andare a dormire - No al cellulare per calmare i bambini
- No all’utilizzo del cellulare a tavola e durante qualsiasi pasto
- Per i genitori: dare il buon esempio limitando voi stessi l’utilizzo dei
dispositivi quando siete con i vostri bambini – se ci pensiamo un attimo:
quanto tempo passiamo a filmare, fotografare i nostri bambini? ora i bambini,
anche i piccolissimi sono abituati a vedere, notare e stare sempre assieme agli
smartphone. Spesso i bambini vengono costantemente ripresi, fotografati,
filmati in ogni loro situazione e crescono avendo sempre davanti agli occhi lo
schermo di un cellulare.
I rischi sono riassunti nel seguente elenco:
- i dispositivi elettronici interferiscono con lo sviluppo cognitivo dei bambini:
hanno bisogno di esperienze dirette e concrete con gli oggetti e non mediate da
uno schermo - bassi livelli di attenzione e minore relazioni sociali con i coetanei
- aumento del rischio di incorrere in problemi alimentari e comportamentali
- sintomi fisici come mal di testa, dolore e secchezza agli occhi, posture scorrette
- peggiore qualità del sonno, più paura del buio, incubi notturni
- possibili interferenze con lo sviluppo del linguaggio – vedere e utilizzare
costantemente le emoticons può ridurre la consapevolezza emotiva e si può
tradurre nella difficoltà di tradurre a parole ciò che vedo in una immagine
Ansia e depressione: danni sulla salute fisica come fumo e obesità
Quando sei preoccupato o agitato non avverti disturbi allo stomaco? E quando sei triste, non ti senti meno energico e prestante del solito? Questo avviene perchè la nostra mente e il nostro corpo sono uniti in modo indissolubile, e non possiamo prenderci cura di uno trascurando l’altro. Non starai bene fisicamente se non ti sei preso cura anche della tua mente!
Che ansia e depressione siano condizioni che danno sofferenza è chiaro a tutti. Ma quale è esattamente il legame mente-corpo in questo caso?
Un recente studio* del dipartimento di psichiatria dell’università di San Francisco, pubblicato su Health Psychology ha indagato gli effetti che depressione e ansia hanno sulla salute fisica. Il campione era formato da oltre 15 mila individui con età media di 68 anni e lo studio ha avuto una durata complessiva di quattro anni. Di queste persone il 14% era fumatore (2.125 soggetti), il 31% soffriva di obesità (4.737 soggetti) e il 16% (2.225) soffriva di ansia e depressione gravi.
I risultati evidenziano che coloro che presentavano alti livelli di ansia e depressione avevano il 65% di probabilità in più di sviluppare una patologia cardiaca, il 65% di probabilità in più di di avere un ictus, il 50% di probabilità di in più di soffrire di pressione alta. Infine, l’87% del campione era più incline a sviluppare l’artrite rispetto a coloro che non mostravano alti livelli di ansia e depressione. Un ricercatore coinvolto nello studio ha affermato che questo eccesso di rischio è simile a quello riscontrato nei partecipanti fumatori o obesi, sottolineando che, nel caso dell’artrite, gli alti livelli di ansia e depressione sembravano conferire un rischio addirittura maggiore rispetto al fumo e all’obesità.
Altri dati hanno permesso di evidenziare che il gruppo con gravi sintomi ansiosi e depressivi avevano anche più probabilità di sviluppare mal di testa, mal di stomaco, mal di schiena e fame d’aria.
Ricordo che, secondo i dati OMS – Organizzazione Mondiale della Salute- la depressione colpisce circa 300 milioni di persone nel mondo, ed è la prima causa di disabilità. Non dimentichiamo che un “accumulo” di un periodo caratterizzato da ansia, stress o forte tristezza può farci incorrere nel cosiddetto “esaurimento nervoso”, che può causare sintomi riconducibili a un disturbo dell’umore e a un disturbo d’ansia.
Il cosiddetto “esaurimento nervoso” comprende sintomi che mostrano ampiamente il legame stretto tra mente e corpo: apatia, svogliatezza, mancanza di energia, debolezza muscolare, attacchi di panico, tachicardia, giramenti di testa, sintomi gastrointestinali.
Quando l’organismo non è più in grado di rispondere correttamente e in modo funzionale agli stess dell’ambiente che ci circonda, ci dà dei segnali che vanno colti. Occorre quindi affrontare il problema con uno specialista per ristabilire una condizione di benessere.
*(Sandoiu, A. (2018) How do anxiety and depression affect physical health. The Journal of the American Psychological Association.
Leggi TuttoChe pizza, che noia!
A chi non è capitato di sentirsi annoiati di tanto in tanto, di non trovare nulla di interessante da “fare”? La noia è un vissuto che sperimentiamo sin dalla tenera età e che tendiamo a far derivare dalla mancanza di stimoli, dall’ambiente circostante, o comunque da qualcosa che è esterno a noi. È una delle sensazioni più temute dall’uomo moderno, che fa di tutto per non sentire i temuti “vuoti”, purtroppo invano. Non sappiamo che spesso la noia nasce dentro di noi e ci sentiamo annoiati quando siamo sconnessi dal momento presente e da noi stessi e dimentichiamo che è proprio nei momenti di apparente vuoto che si aprono le porte alla creatività, ai nostri talenti.
La noia ci spinge a fuggire, ma spesso la soluzione è stare
Cerchiamo di combattere la noia con agende pienissime, impegni inderogabili e attività imperdibili e cerchiamo costantemente nel mondo esterno qualche stimolo interessante, relegandoci quindi a parte passiva, evitando così di cercare la soluzione dentro di noi. Fintanto che tentiamo di fuggire dalla noia, in realtà rimaniamo ancorati ad essa, e per giunta senza capire che ci troviamo in un circolo vizioso: la nostra mente cercherà sempre più nuovi stimoli, effimeri, non giusti, nel senso che non saranno quelli di cui abbiamo realmente bisogno, e in quantità sempre maggiore…Che frustrazione, che noia! È una battaglia persa in partenza. È decisamente meglio provare ad entrare in contatto con la nostra noia per capire quali sono realmente i nostri bisogni, per ritrovare il centro di noi stessi.
Lasciamo che i bambini si annoino di più
Negli ultimi anni i bambini sono soggetti ad una iperstimolazione: sempre più pieni di attività, di cose da fare, di impegni da onorare tanto che non hanno materialmente il tempo per annoiarsi, e quando capita loro qualche momento “vuoto” (vacanze di Natale, vacanze estive) ecco che non riescono a sviluppare una autoregolazione che permette loro di stare senza necessariamente avere bisogno di altro. Forniamo ai nostri bambini stimoli di qualsiasi genere: tablet, computer, giochi virtuali, iPhone, iPad, attività extrascolastiche, tanto che rischiamo di non permettergli più di trovare la loro vera inclinazione. Per giunta, se i genitori cercano di occupare tutto il tempo libero dei loro figli, allora il bambino non acquisirà mai la capacità di intrattenersi da solo. Sperimentare un pizzico di noia è invece un passo necessario per entrare in contatto con sé stessi e capire quali sono le attività a cui ci si vuole davvero dedicare. Questo è fondamentale per continuare a desiderare e per sviluppare la motivazione essenziale al raggiungimento degli obiettivi.
A questo proposito, era solo il 1993 quando lo psicanalista Adam Phillips scrisse: “La capacità di annoiarsi può essere un risultato evolutivo per i bambini”, e Bertrand Russell nel lontano 1930 dedicò un capitolo del suo libro “La conquista della felicità” al valore della noia. Il filosofo scrisse: “L’abilità di sopportare una vita più o meno monotona dovrebbe essere acquisita durante l’infanzia. I genitori moderni hanno un sacco di sensi di colpa in questo aspetto: offrono ai loro figli troppe deviazioni passive, come spettacoli e dolci, e non si rendono conto di quanto sia importante per un bambino che un giorno sarà uguale all’altro, tranne, ovviamente, per qualcosa di speciale”. Ancora, Russell scrisse: “Una certa capacità di sopportare la noia è quindi indispensabile per avere una vita felice, ed è una delle cose che si dovrebbero insegnare ai giovani. Tutti i grandi libri hanno dei capitoli noiosi, e tutte le grandi vite hanno avuto dei periodi non interessanti.”
Permettere ai bambini di annoiarsi è dunque un modo per avere dei bambini, e quindi degli adulti, indipendenti.
Noia come chiave di accesso alla creatività
Nei momenti “vuoti”, di apparente “noia” in realtà lasciamo la nostra mente libera di viaggiare, favorendo lo sviluppo di soluzioni creative ed estremamente personali. Se ascoltiamo la noia, essa può aiutarci a mettere in moto quei piccoli e grandi cambiamenti fondamentali alla qualità della vita. Ricontattare la noia può quindi essere un’occasione per essere di nuovo protagonisti della nostra vita.
Come cerchiamo di evitare la noia?
- Riempiendoci di impegni
- Cercando di fare tutto e subito, in modo veloce
- Uso di droghe e alcolici
- Ricerca di esperienze forti
- Continuo contatto con l’esterno
- Continuo distacco con noi stessi (evitare il più possibile di rimanere soli)
Le conseguenze di questo modo di agire prevedono la perdita di libertà di azione e di scelta (si fanno le cose sulla base della paura e non del desiderio), con il risultato che rischiamo di annoiarci molto di più e molto più in fretta. Eccoci ancora alle prese con il famoso circolo vizioso!
Ecco cosa possiamo fare:
- Ridurre gli impegni
- Provare ad annoiarci un po’ una volta ogni tanto
- Dare valore a quello che facciamo
- Provare a contrastare un po’ il “pilota automatico”: portiamo avanti il nostro rapporto di coppia senza troppa convinzione, magari per la paura di restare soli?
- Impegnarci a dare il meglio di noi nella situazione attuale senza aspettare la situazione ideale
- Cambiare la nostra routine a partire dalle piccole cose: se la nostra vita è una sequenza di giorni sempre uguali e nulla ci stimola più, può essere utile cambiare la nostra routine quotidiana. Per esempio, se fate sempre colazione di corsa, bevendo un caffè in fretta, prendetevi il tempo di fare una colazione a regola d’arte.
La soluzione vincente contro la noia è essenzialmente imparare ad essere pienamente presenti nella propria realtà e nella propria vita.
Leggi TuttoArriva il Natale! Come sopravvivere alle festività
Le vetrine del centro città, le luci accese da settimane, gli addobbi, i panettoni nelle corsie dei supermercati: tutto attorno a noi ci dice che sta arrivando il Natale. Nulla ci permette di sfuggire alla frenesia delle feste tra auguri e regali da fare, menù da organizzare, vacanze e feste da pianificare, alberi e presepi da decorare… il rischio è quello di vivere questo periodo con più ansia e stress che altro. Ma cosa succede realmente? Per tutti questo è un periodo di feste, condivisione e gioia?
Per molti queste feste si trasformano in una vera e propria tortura dalla quale è difficile uscire. Piano piano ci si comincia a sentire stranamente tristi, letargici, apatici, demotivati: non abbiamo voglia di pianificare, di partecipare agli impegni sociali e alle numerose “cene natalizie”, la corsa ai regali ci sembra qualcosa di forzato e innaturale, stare assieme agli altri ci richiede uno sforzo importante. Preferiamo stare in casa e non sentiamo il tanto famoso “spirito natalizio” che tutti sembrano avere… Eccoci qui ad affrontare le feste ancora più stanchi e demotivati di prima! Tra i sintomi prevalenti si possono trovare infatti disturbi dell’umore e della sfera affettiva, sintomatologie ansiose riconducibili a situazioni di stress, senso di solitudine e di abbandono.
Questa silenziosa sensazione di tristezza diffusa che compare durante le feste di Natale ha un nome preciso: “Christmas Blues”, cioè “Tristezza di Natale”. È una precisa forma depressiva che dura da alcuni giorni a qualche settimana e tende a scomparire al termine delle festività e delle vacanze, quando si ritorna ai ritmi precedenti.
Alcuni fattori che contribuiscono a questo disturbo sono:
– Cambiamenti di ritmi di vita: si lavora/si studia di meno, si è più a contatto con le persone care (figli, partner, genitori, parenti, amici), più tempo libero a disposizione, diverso modo di trascorrere le giornate e le serate
– Riduzione delle ore di luce del periodo autunnale/invernale (fattore che influisce su alcuni meccanismi responsabili della produzione di serotonina – il cosiddetto ormone della felicità
– La generale euforia e felicità (spesso altrui!) che notiamo all’esterno
– La partecipazione a cene, riunioni di famiglia, eventi festosi
– Eventuali ricordi dolorosi (eventi traumatici accaduti in famiglia nel periodo natalizio, lutti, tensioni in famiglia, eccetera)
Quindi…che fare? Il primo passo è quello di ridimensionare il tutto e fare un buon esame di realtà: il Natale è una festa religiosa che unisce famiglie e persone che si amano (e a volte anche quei parenti che tanto non sopportiamo!) ma in ogni gruppo ci sono conflitti, liti e dissapori. Proviamo a ridimensionare: non tutto deve essere perfetto, né noi, né le nostre prestazioni (tavole, addobbi, cene, regali). Il Natale non è una gara. Proviamo a goderci questo momento come più preferiamo, senza costrizione alcuna. Non lasciamoci ingannare dalle idee preconfezionate. La cosa più importante è stare al meglio con noi stessi e fedeli alle nostre idee e ai nostri desideri.
In ogni caso, in qualsiasi modo deciderete di passare questi giorni, io vi auguro BUONE FESTE!
IMMAGINE CORPOREA E BENESSERE
Sabato 17 novembre – ore 17
Dr.ssa ALICE POGNANI – Psicologa, Psicoterapeuta Biosistemica – Associazione Nereidi
IMMAGINE CORPOREA E BENESSERE
Alimentarsi significa prendersi cura di sé stessi. A volte si ha qualche difficoltà nel sentirsi
bene con il proprio corpo e spesso la colpa di ciò viene erroneamente attribuita alla relazione
col cibo. Come affrontare questo conflitto? E come superare i condizionamenti dei modelli
stereotipati irraggiungibili e dannosi che i media e la società contemporanea tende a far
valere.
In compagnia della tisana “Vitalità” (menta, liquirizia, magnesio e vitamine)
Falsi miti su diete e cibo
A Villa Edvige Garagnani dal 20 ottobre al 4 giorni, 3 giorni su 7. la Villa apre i battenti.
Domani la biologa nutrizionista Alessandra Cremonini parlerà di Falsi miti su diete e cibo.