L’altro lato della depressione
L’OMS ha recentemente lanciato un allarme: la depressione in 10 anni è aumentata quasi del 20% e nel mondo ne soffrono 332 milioni di persone. In diverse forme, in Italia la depressione interessa circa 15 milioni di individui. Sono cifre da epidemia, peraltro in costante aumento, ma questo dato ha consentito anche un nuovo punto di vista sulla questione, che sta portando diversi studiosi a “rivalutare” alcuni aspetti di questa patologia. Alcuni psichiatri e psicologi sono arrivati a ipotizzare che anche questo male abbia una sua -per quanto dolorosa- funzione, cioè spingere gli individui a concentrarsi sui propri problemi –una relazione che non va, un lavoro che non soddisfa- per cercare di trovarvi una soluzione. La depressione – come sostenuto dal New York Times Magazine– sarebbe in questo senso come la febbre, una reazione che aiuta il sistema immunitario ad adattarsi a una situazione problematica, e dunque a reagire.
La depressione può essere una risorsa?
La psichiatria evoluzionistica sostiene che gli episodi depressivi rappresenterebbero in realtà un’occasione utile per consentire alla mente di mettere a fuoco le emozioni negative e gestire meglio il dolore esistenziale. Comportamenti come evitare le situazioni sociali, non andare al lavoro, dormire molto, sarebbero funzionali a
prendersi del tempo per sé e analizzare e comprendere il proprio stato d’animo e gli eventi scatenanti, in un mondo in cui tutto fare questo è molto complicato.
Esistono diverse teorie secondo le quali la depressione avrebbe un lato adattivo, e una delle attualmente più conosciute riguarda l’ipotesi della ruminazione analitica. Questa teoria, proposta dai ricercatori americani Andrews e Thomson (2009), sostiene che i sintomi fisici e mentali della depressione (l’anedonia, ovvero la
mancanza di piacere e interesse nella maggior parte delle attività e la ruminazione, cioè quel continuo rimuginare sui problemi che caratterizza l’attività mentale del depresso) sarebbero correlati con un aumento delle abilità analitiche e sarebbero tutti meccanismi atti a promuovere una ricerca di soluzioni alternative. In particolare la ruminazione ha una funzione positiva: impedire al malato di distrarsi e tenere la sua attenzione concentrata sul problema specifico che deve risolvere, o sulla situazione che deve imparare ad accettare. Dunque, secondo gli studiosi, la depressione sarebbe un tratto adattivo, anche nel senso darwiniano del termine, cioè una caratteristica vantaggiosa biologicamente.
Il Prof. Troisi, psichiatra evoluzionista all’università di Roma Tor Vergata, afferma: “l’approccio evoluzionistico in psichiatria parte da un presupposto: quello secondo cui tutte le emozioni negative nascono come adattamento”. L’ansia e la depressione sarebbero dunque dei segnali di allarme simili al dolore fisico, che permettono di evitare situazioni, eventi o relazioni che provocano dolore mentale.
In linea con questo pensiero, altri studiosi parlano di “realismo depressivo” (Alloy e Abramson, 1979), spiegando con questo termine il fatto che le persone depresse hanno una visione delle cose più realistica. Sono stati condotti dei test, a questo proposito, nei quali le persone affette da depressione hanno ottenuto, rispetto al
campione, dei punteggi più alti su una scala che misurava la capacità di analisi realistiche e la consapevolezza di fronte ai problemi.
Il fatto che la depressione abbia una utilità non deve farci dimenticare che essa è una malattia, e che come tale va affrontata e curata.
Un accenno alla tristezza
Molto diversa dalla depressione è la tristezza, che ci consente di allontanarci temporaneamente dal mondo esterno per occuparci del mondo che sta dentro di noi. Essa ci aiuta nell’elaborazione dei ricordi e ci consente di sperimentare compassione ed empatia. Alcuni teorici ipotizzano che questa emozione si sia evoluta come grido di aiuto, permettendo così alle persone di comunicare la propria sofferenza e, agli altri, di ricevere il messaggio senza bisogno di parole.
In un articolo del 2009 pubblicato sulla rivista Evolutionary Psychology, per esempio, i ricercatori dell’Università di Tel Aviv hanno osservato che le lacrime segnalano vulnerabilità e promuovono l’avvicinamento (Hasson, 2009). Inoltre nel 2013 Balsters e collaboratori hanno condotto uno studio sperimentale per osservare l’influenza delle lacrime. I ricercatori hanno mostrato ai partecipanti una serie di
volti, alcuni pieni di lacrime e altri neutri, che comparivano su uno schermo solo per pochi millisecondi, troppo poco tempo per permettere al cervello di registrare in maniera consapevole le lacrime. Lo studio ha rilevato che le lacrime hanno spinto i partecipanti a dire in seguito che quella stessa persona era più bisognosa di
supporto sociale anche se non si erano accorti che quei visi erano bagnati dal pianto (Balsters et al., 2013).
Ancora, Forgas e i suoi colleghi (2010) hanno trovato che le persone tristi hanno buone capacità critiche e maggior accuratezza per i dettagli, addirittura per quelli molto piccoli e sottili. Oltre a ciò i ricercatori hanno documentato che la tristezza rende le persone più altruiste.
Tutte le emozioni portano un messaggio e la tristezza è un “segnale di allarme” che ci permette di fermarci in tempo per cambiare strategia, prima di sprofondare in uno stato emotivo peggiore e pericoloso, fino a cadere nelle sindromi depressive
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